Quando in fotografia si affronta il paesaggio della guerra a un secolo di distanza da questa, si ha la quasi assoluta certezza che ciò che si vede sia molto meno di quello che c’è: la coscienza della memoria gioca un ruolo fondamentale, “il” ruolo fondamentale. Si potrebbe obiettare che in questo caso il compito “classico” della fotografia viene meno, perché non testimonia più nulla – non è sul posto né contemporaneamente né subito dopo l’avvenimento -, ma può soltanto evocare, demandando allo spettatore memoria, cultura ed empatia di eventi e per eventi che alla fine non ci sono, non si vedono. Ma la fotografia come presa diretta sulla realtà è ormai solo un ricordo, o al massimo un piccolissimo territorio del suo vasto campo d’azione, e l’azione del fotografo mette in campo tutte le categorie percettive e interpretative che si mettono in scena nell’arte, per cui - nel nostro caso – è assolutamente indispensabile conoscere il contesto entro il quale sono state scattate queste foto (e, di fatto, ogni foto), e l’intenzione con cui sono state prese. Fattori importanti, anche se non sufficienti, ma che danno senso a ogni immagine che si ponga coscientemente come artistica, almeno dall’inizio del XX secolo, da quella rivoluzione del vedere e del guardare che, tra l’altro, potrebbe aver giocato qualche ruolo anche nella deflagrazione mondiale (i Futuristi, che di queste cose se ne intendevano, durante e dopo la “loro” guerra da entusiasti volontari ne hanno scontato per così dire un forte senso di colpa, almeno a rileggere sotto questa luce le ultime lettere di Boccioni…). Così, che Luca Campigotto abbia voluto ripercorrere alcuni luoghi della Grande Guerra – come la cosiddetta “Strada degli Eroi”, sul Monte Pasubio -, prima di accettare la committenza più ampia di un lavoro sulle zone di guerra, significa che da quei luoghi era stato attratto, magari solo rispettando una tradizione, che nel Veneto è ancora molto sentita, di un’escursione in località belle e tragiche, ma comunque investendo quei luoghi di una misteriosa empatia cui un artista non sa sottrarsi, se non “esorcizzandola” attraverso l’opera, cioè attraverso il controllo posto in essere dal linguaggio, che la razionalizza nel momento in cui riesce a comunicarla, pur mantenendo e anzi suscitando nella persona cui viene comunicata lo stesso mistero empatico, che a sua volta lo spettatore posta alla coscienza nell’atto di interrogarsi sulla propria emozione di fronte all’opera, in un processo potenzialmente infinito. Ma quali sono, dunque, queste sensazioni? Quale può essere l’empatia per una guerra di cui non esiste ormai nessun testimone diretto? La Grande Guerra è una guerra al contempo vicina e lontana. Vicina, perché è stata testimoniata e mostrata con strumenti tuttora usati e in fondo attuali: la fotografia e soprattutto l’immagine in movimento del cinema, pur con quelle immagini sgranate, non sono troppo diverse dai reportage attuali sulle guerre nel mondo, e anzi hanno dalla loro una chiarezza “etica” nel non coinvolgere il testimone – il cineasta, il reporter, il fotografo di guerra – che in questo modo ha potuto documentare senza enfasi la vita di trincea e tutto quanto ne consegue. Ciò ci fa considerare la Prima Guerra Mondiale come una guerra “moderna”, non solo per l’ampiezza del conflitto (che la distingue da una guerra “postmoderna” solitamente limitatissima) e neppure per le armi usate (che sono quelle di ora, seppur più rudimentali), ma soprattutto per i media con cui è stata riportata per cui, chiunque intenda ripercorrerne i temi e i luoghi, non può non confrontarsi con quei media, che sono ancora i nostri, seppure nella loro “pulita” infanzia. E tuttavia, è anche una guerra lontana, perché ne abbiamo ormai dimenticato i motivi, perché non è più ideologicamente attiva, perché non suscita più nessuno spirito di orgoglio, di revanche, di vendetta, di rivincita, e tanto meno di “giustizia” (che di solito è la giustizia dei vincitori): ciò che resta è la pietas, il senso dell’inanità della lotta, dell’inutile sacrificio, dello spreco della vita. In questa guerra non ci sono – al contrario che nella seconda – vincitori e vinti, perché siamo tutti vinti. E’ l’umanità intera che è stata vinta, ma la sua dignità viene riscattata da un’altra umanità, fatta di tutte quelle persone, di tutti quegli uomini – uomini, non soldati – che nell’incomprensibilità del massacro hanno cercato semplicemente di vivere. E’ a questi che va l’empatia di chi guarda, oggi, quelle immagini sbiadite, e di chi ripercorre – come Campigotto – quei luoghi gravidi di “umanità a tutti i costi”. La questione è “come” rendere questa pietas oggi, attraverso luoghi che restituiscono pochi indizi di ciò che è stato. Eppure, il soggetto è tanto presente che può anche non esserci. Questo paradosso è comprensibile e accettabile se, come si è detto, lo spettatore conosce preventivamente il contesto: la disposizione d’animo a vedere oltre l’immagine è fondamentale, ma è anche impegnativa per l’immagine stessa, che è gravata di un compito difficile, qual è quello di riuscire a far scattare il senso del luogo, l’atmosfera fortissima che pervade lo spazio. Campigotto ha iniziato questa ricognizione usando il bianco e nero. Una scelta che pareva obbligata, sia per la convenuta incisività del non colore, sia per una sorta di voluta analogia con le testimonianze già date dello stesso avvenimento: in altre parole, se la Grande Guerra è stata documentata allora in bianco e nero, l’uso dello stesso strumento, della stessa qualità e categoria si accoda e si sovrappone a quella documentazione con una sorta di naturalezza espressiva, col riconosciuto omaggio ai milioni di immagini scattate in quegli anni. Il processo mentale è coerente e condivisibile, e le immagini restituiscono oggettivamente quel senso di “stoicismo obbligatorio” dei soldati d’allora, che è riuscito a cambiare la fisionomia delle montagne – il monte Pasubio, in questo caso - con una strada scavata nella roccia, strada divenuta montagna essa stessa; tuttavia, la scelta successiva del colore per questo soggetto, che è divenuta preponderante, dopo un primo momento di possibile sconcerto, risulta più interessante, più problematica e perciò più fertile di sviluppi interpretativi e persino di riflessioni sulla fotografia stessa. L’incisività del bianco e nero si contrappone solitamente alla multiforme (e dispersiva) ricchezza cromatica del colore: è la differenza, per usare un’analogia fotografica, tra uno zoom e un grandangolo, dove il primo focalizza un particolare, un’idea identificata, il secondo un panorama, un “ambito mentale”. In astratto dunque, si sarebbe portati alla scelta del bianco e nero per la Grande Guerra, eppure la scelta di Campigotto dimostra sul campo la propria superiorità. Per prima cosa, elimina dall’interpretazione proprio quell’ovvietà del bianco e nero, che si fa stereotipo e che, di conseguenza, fa leggere in maniera stereotipata l’immagine che ci troviamo di fronte; poi, adotta alcuni espedienti visivi di grande intelligenza ed efficacia, perfettamente centrati sul soggetto, sull’idea che sta alla base di ogni fotografia, e che fa di questo lavoro un lavoro davvero unitario. Le inquadrature, ad esempio, non sono quasi mai spettacolari, anche se avrebbero potuto esserlo – la Marmolada, le Dolomiti, l’altopiano di Asiago sono “anche” luoghi bellissimi –, ma riprese quasi sempre a una “misura media”, per così dire, quella che un soldato doveva per forza considerare – un vallone, un camminamento, tutto ciò che è e ti pone “a tiro di fucile” … –, sia in esterno che in interno, dove per interno si intende il cuore delle montagne, scavate come un formicaio d’alta quota, e di cui rimangono tuttora resti e materiali che non si sa se definire vestigia o concrezioni, non si sa, cioè, se si tratta di qualcosa di umano o di geologico. In tutto questo, dunque, Campigotto ci restituisce attraverso le immagini “medie” una sorta di “continuità” quotidiana – quella che doveva essere della vita di tutti i giorni, e non degli assalti, degli spari, dei morti … –, fatta di paesaggi che non sono più paesaggi, ma sono “il tuo ambiente”, il tuo habitat. E’ difficile fare di un luogo vocato al paesaggio, come una montagna – e una montagna nota -, qualcosa che rifugga da questo concetto così romanticamente legato a una concezione di bellezza sublime, ma Campigotto ci riesce, perché non soltanto l’inquadratura, ma ogni sua scelta tecnica è indirizzata ad “abbassare il tono” di quella che altrimenti rischierebbe di essere un’immagine vagamente corrotta dalla retorica del luogo, del sacrificio, della storia. Non ci sono concessioni in tal senso, e la stratificazione degli artifici che accumula in ogni fotografia raggiunge il suo scopo. Non si sa se si tratti di postazioni italiane o austriache e soprattutto, fortunatamente, non ci poniamo neppure la domanda; sono, ancora, scatti ripresi in una stagione dell’anno indefinita, indefinibile, perché il tempo è tutto uguale, giorno dopo giorno, e il cielo è sempre rannuvolato, in modo che tu veda e possa vedere solo ciò che “è necessario” alla tua sopravvivenza, e infine l’intuizione geniale – già usata da Campigotto in certe sue serie urbane americane, ma qui meno direttamente enfatizzata – di abbassare letteralmente il tono del colore attraverso una delicata elaborazione elettronica. Vediamo a colori, ma è tutto smorzato – il verde dell’erba, il bianco della neve, le rocce, il legno e il ferro di cent’anni fa -, e su tutto incombe un’uniformità cromatica che ha prima il sapore del mimetismo grigioverde (altra analogia subliminale), poi il senso di una natura che non puoi far altro che assecondare assumendone i colori, ben al di là del camouflage militare, assumendone la consistenza, dimenticando il tempo umano. E’ l’indifferenza delle ere geologiche che ha imposto a quegli uomini, per sopravvivere, di diventare una parte di quell’ambiente, di “farsi montagna”.
Testo dal volume Teatri di guerra, Silvana, 2014
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