copyright © 2013 Luca Campigotto
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«Tanto torno presto...»

di Tobia Donà

 

Sarà che in lui scorre il sangue degli antichi navigatori veneziani, sarà che tutti i fotografi sono in fondo dei curiosi esploratori, fatto sta che çuca Campigotto ha infuso nella fotografia di viaggio un così alto numero di significati da restiturici immagini uniche anche dei luoghi più fotografati al mondo.

Sei nato a Venezia, probabilmente il luogo più fotografato al mondo, e lì hai iniziato a fare fotografie. Quali vincoli e regole ti sei dato?

Venezia è casa mia e non l’ho mai temuta visivamente. Lei ha plasmato i miei occhi e io la conosco a memoria. Anche adesso che non ci abito più, continuo ad appartenerle: lei negli anni ha fatto via via di me quel che ha voluto. Mi ha fatto perdere da bambino per le sue calli; mi ha visto studioso del suo favoloso passato, chiuso nella biblioteca Marciana a vagare con l’immaginazione sulle rotte d’Oriente. Poi mi ha spinto sulla strada della poesia, a scrivere immerso nel male di vivere di Montale e Brodsky. Infine, mi ha messo in mano una macchina fotografica a lastre e mi ha ordinato di fotografarla con stupore e abbandono come si sarebbe fatto nell’Ottocento. Di notte, quando le strade sono vuote e lei torna a essere un teatro del tempo, siamo io e lei da soli. Come Will Smith nel film Io sono leggenda pattugliava di giorno le strade di una New York post-apocalittica, io cammino la notte per calli e fondamente, cercando di mettermi in contatto col passato. Solo che io non ho il cane lupo, e neanche una Mustang Shelby GT500.
Ancora oggi che la sto fotografando per un libro commissionatomi da Hermès che uscirà l’anno prossimo, è come aggirarmi per casa: inseguo la luce che cambia nelle stanze e penso al tempo perduto, a ciò che è stato.
Indipendentemente dal risultato che raggiungo, per me la fotografia è soprattutto un tentativo di terapia, un modo per disciplinare la malinconia, per dominare lo struggimento della nostalgia.
Chiunque sia stato innamorato a Venezia ne conosce l’invincibile forza poetica, quel senso di luogo unico e irripetibile che ti resterà sottopelle per sempre. Trattandosi di una faccenda d’amore, quindi, nessun vincolo e nessuna regola particolari. Semplicemente fai quello che ti senti di fare, sii sincero con te stesso, si vive una volta sola. Insegui i tuoi fantasmi.

Hai attraversato l’epocale rivoluzione dalla pellicola al digitale. Ora le tue immagini sembrano perfette per quest’ultima tecnologia. Hai investito molto in termini di tempo e sperimentazione?

Sì, moltissimo tempo, anzi, tutto il mio tempo. Prima sono stato per vent’anni un monaco zen della camera oscura, al piano terra della casa dei miei genitori a Venezia, rigorosamente in balia dell’acqua alta. Oltre alla triade rivelatore, acido acetico, fissaggio, io ho avuto sempre a disposizione anche l’acqua salata.
Poi, dopo un lungo periodo di diffidenza, ho cominciato a usare il computer, a esplorare le potenzialità dei file, a stampare da solo con i plotter di grande formato. Non tornerei indietro, non vorrei più stare in piedi per ore davanti alle bacinelle maleodoranti. E, tutto sommato, mi diverte fotografare a colori, cambiarli sempre, non trovare mai quelli giusti, passare dai toni rarefatti a quelli saturi come nei fumetti.
Di certo, non mi appassionano le discussioni su digitale e analogico, la sacralità della pellicola, la volatilità dei bit... Sono molto contento delle stampe che riesco a realizzare e del controllo che riesco ad avere sull’immagine che ho in testa, e tanto mi basta.

Ma ti manca qualcosa della tua era analogica?

L’unica cosa di cui sento la mancanza è il breve, magico momento dell’apparizione, quando sul foglio bianco improvvisamente compare quello che avevi già visto, immaginato, sognato. Il computer non può riprodurre questo incantamento chimico. Se ci ripenso adesso, è come rivedere il viso di un amore scomparso. Per il resto, continuo a sfogliare i classici: da Carleton Watkins a Walker Evans, da Robert Adams a Francis Frith, da Weegee a Robert Frank... La lista dei miei supereroi è lunghissima, e quando mi lascio andare alle loro immagini, le faccende intorno alla téchne mi sembrano irrilevanti.

Come decidi il punto di ripresa?

Anche qui nessuna regola: negli ultimi anni ho fotografato molto sulle montagne e dai grattacieli ma non c’è un punto di vista che prediliga particolarmente. In genere, dall’alto si ha la sensazione rassicurante di vedere tutto, di avere tutto sotto controllo. Ma a volte la visione complessiva che si riesce ad avere da una posizione elevata manca della tensione disperata che si riesce a costruire in un’immagine guardando dal basso verso l’alto. Quando sono in basso e decentro l’obiettivo* verso l’alto, inseguo qualcosa che vorrebbe sfuggire all’inquadratura, mi ostino a cercare la potenza compositiva delle linee e dei volumi. Le fotografie fatte da sotto hanno più rabbia in corpo. Quando, invece, mi trovo a decentrare verso il basso mi sento più come chi si china a raccogliere le conchiglie sulla sabbia, recupero dal fondo qualcosa che stava andando perduto, come se l’obiettivo fungesse da rete a strascico.

Dalla tua biografia sappiamo che ti sei laureato con una tesi sul tema del viaggio che è anche l’argomento che indaghi maggiormente attraverso la fotografia.

Vedere il mondo è il compito che inconsciamente mi son dato da bambino. Ho sempre voluto andarmene, vedere cose che non conosco, paesaggi e architetture diversi da quelli che mi sono familiari. I viaggiatori del Cinquecento che ho studiato restavano in giro per dieci, venti anni. Alcuni non riuscivano più a tornare indietro. Bastava la sfortuna di un colpo di vento sbagliato e non si tornava più a casa. Tuttavia, ogni grande viaggiatore non abbandona mai l’idea che presto tornerà a casa. Anch’io, che sono solo un piccolo viaggiatore in un’epoca in cui tutti viaggiano ovunque, la sera prima di partire mi guardo allo specchio e mi dico: “«anto torno presto... ». E torno sempre con un pezzetto di mondo rubato lontano. Come un qualunque turista, fotografo per portare a casa qualcosa che non mi appartiene e che spesso nemmeno capisco. Catturo immagini di posti lontani voracemente, come un predone, un tombarolo dello sguardo.·
Non saprei cimentarmi con una natura morta, mi sentirei fuori luogo. Né con una modella, di cui sicuramente mi invaghirei. Una volta ho provato a fotografare dei vetri di Murano con le luci in studio e mi sembrava di impazzire.·
E poi, più che viaggiare, in genere io scappo. Non so mai davvero bene dove andare e cosa fare, e la macchina fotografica mi fa compagnia: lei ascolta le mie preghiere e le mie maledizioni, sta attenta a quel che dico, si fa carico dei miei desideri. Io le sussurro dolcemente come nell’orecchio di un cavallo, tenendola per lo scatto flessibile come fosse una briglia. Quando sono in viaggio lavoro incessantemente, divorando il mio mondo nuovo attraverso l’obiettivo. Malgrado la lentezza imposta dal banco ottico sul cavalletto inquadro al volo, d’istinto: ogni colpo, un morto.

Il tuo viaggio ha una meta?

Scattare fotografie viaggiando o sistemare al computer immagini fatte in viaggio è la mia dose quotidiana di pane e acqua. La fotografia, non so perché, è l’unica cosa che ha dato una parvenza di senso alla mia vita, un percorso. Con il passare del tempo ho capito che il mio viaggio in realtà non ha metà, non c’è destinazione finale. Solo un susseguirsi di tappe, tanti episodi di esplorazione e pellegrinaggio. Sogni giovanili d’avventura che presto diventano ricordi, e spesso malinconie. «Tanto torno presto...».

Luca Campigotto

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