Luca Campigotto nasce a Venezia ma vive costantemente senza una fissa dimora, di base tra New York e Milano, sempre pronto a partire per nuove avventure. Il suo lavoro, lo ha portato a Roma, Napoli, Londra, Chicago, in India, in Marocco e in moltissimi altri posti del mondo, senza ovviamente dimenticare la sua città natale e New York. Ha potuto esporre i suoi lavori in alcune delle più importanti gallerie nel mondo e pubblicare anche molti libri. Stiamo parlando di uno dei più apprezzati fotografi italiani, che con le sue visioni riesce a catturare l’occhio di chi osserva le sue fotografie e trascinarlo nella scena in un batter d’occhio.
Tra una realtà ricca di dettagli e quell’aura mistica data dalle lunghe esposizioni. Fotografie che raccontano storie di vita vissuta, città in frenetico movimento, che si tratti della grande mela o di Calcutta questo non fa differenza. In questo duemilaquattordici appena iniziato, Campigotto ci accompagnerà mese per mese con le sue fotografie scelte per il Calendario Epson, in attesa di una mostra evento a Roma con le sue immagini sui luoghi montani in cui è stata combattuta la Grande Guerra.
Sono ormai molti anni che fai il fotografo, come e quando hai iniziato?
Ho iniziato un poco alla volta, mentre ero all’università e il desiderio era viaggiare e fare delle fotografie tipo National Geographic. Presto, però, sono inciampato nel bianco e nero, ho capito che mi interessava solo la fotografia di paesaggio e tutto è cambiato. Ho cominciato a fotografare Venezia, la mia città, e alcuni paesaggi desolati del Veneto. Poi, un giorno ho visto il libro di Robert Adams “From the Missouri West” e ho deciso che avrei davvero provato a fare il fotografo. Attraverso quel libro e l’altro suo capolavoro “Los Angeles spring” ho capito che era possibile fare poesia attraverso la fotografia. Dopo la laurea in storia mi sarebbe piaciuto continuare a studiare e scrivere, ma ho ricevuto il mio primo incarico per il progetto “L’archivio dello Spazio” della Provincia di Milano, e da allora non ho più smesso.
Cosa cerchi nella fotografia?
Attraverso le immagini penso di poter esprimere compiutamente il mio vissuto, e in maniera abbastanza immediata, anche se la mia è comunque una fotografia “lenta”, da cavalletto, che vive attraverso progetti e non per singole istantanee colte al volo. In realtà, a parte la fotografia di paesaggio dell’Ottocento e una parte, neanche troppo grande, della fotografia contemporanea, il mio vero amore è il cinema.
Probabilmente, ho fatto il fotografo perché, rispetto alla gigantesca e complessa macchina del cinema, la fotografia mi offre la possibilità di avere un riscontro visivo immediato del mio immaginario. E’ stato da subito un modo per viaggiare, alla ricerca di “mondi” da scoprire e poi rivedere attraverso il tempo, con gli occhi della memoria. Un modo per poter trasfigurare il reale facendo sì che diventi una scenografia, il possibile fondale di una storia da proiettarci sopra.
E cosa vuoi comunicare con le tue fotografie?
A dir la verità, non mi è mai importato aver “qualcosa da dire”. Non sono assolutamente un fotografo di testimonianza e tutto il mio lavoro non è che una personale via di fuga. Mi verrebbe quasi da dire che, in un mondo dove forse troppi hanno cose importanti da dire, io sento, come recita il titolo di un libro di Hugo Pratt – il cui eroe Corto Maltese è sempre stato il mio vero, grande mito – “il desiderio di essere inutile”.
L’unica cosa che mi è sempre interessata è inseguire una “voce” poetica, attraverso le immagini o le parole, o magari tutte e due. Per me si tratta, soprattutto, di costruire una visione che funzioni come macchina del tempo e sia un percorso emozionale. Direi che mi considero un suggeritore, uno che indica col dito qualcosa da guardare laggiù, in lontananza. Mi interessa l’evocazione di un’epoca, la possibilità di restituire il “mito” del luogo e della sua storia. E’ stato sempre così: prima lavorando su una Venezia teatrale e notturna in bianconero; poi al Cairo, cercando di ritrovare la cifra “esotica” cara al primi fotografi-viaggiatori, flâneurs di un mondo “altro” e misterioso; fino a New York e Chicago, che ai miei occhi sono un precipitato di film americani e atmosfere da fumetto.
Come è cambiata la fotografia da quando hai iniziato?
Il mondo intero è diventato digitale e anch’io, dopo vent’anni di camera oscura, sono cambiato. Una volta sentivo il bianco e nero come una disciplina ferrea, su cui non si poteva transigere. Poi, nel 2006 ho iniziato a stampare le mie immagini in digitale e da quel momento ho cominciato a fotografare a colori. Attraverso il computer posso ottenere quel colore bastardo, spesso innestato di grigi, che ho sempre avuto in mente. Un colore cinematografico, da reinventare ogni volta – a tratti fortemente desaturato e livido, altre volte denso e carico come in un fumetto. Negli anni, mi sono allontanato dall’universo senza tempo del bianco e nero per esplorare la dimensione “mortale” delle fotografie a colori – che invecchiano presto e che facilmente possono essere datate.
Nella mia immaginazione, son caduto dal cielo nero del Dio della chimica per incamminarmi su una strada terrestre. Oggi mi sento più libero – di provare soluzioni diverse, di cambiare e di rischiare. Il computer mi ha aperto la testa e modificato il gusto, mentre in fase di ripresa non ho cambiato atteggiamento: cammino molto ma scatto molto poco, amo il fare un po’ cerimonioso della fotografia che nasce lentamente, uso sempre il cavalletto, inquadro con precisione, cerco di stampare con la massima cura.
In che luogo non ti stancheresti mai di fotografare?
Adoro fotografare le città di notte, ma credo potrei passare tutta la vita fotografando i grandi paesaggi selvaggi. Quelle solitudini amplificano le sensazioni, ci si sente più consapevoli di se stessi, di dove ci si trova e perché. E, al tempo stesso, ci si sente personaggi di frontiera e sembra sempre di trovarsi in un film d’avventura. Ti puoi credere un esploratore perduto, il primo fotografo che si è spinto fin là o, magari, l’ultimo testimone di un paesaggio destinato a scomparire.
In che luogo non ti stancheresti mai di fotografare?
Devo dire che oggi non vorrei più rinunciare al computer. Non sono un mago di Photoshop, ma la tecnologia mi permette comunque di fare cose che un tempo non potevo neanche sognarmi di fare. Il controllo sull’immagine – e, quindi, sul significato profondo che quell’immagine può avere – è pressoché totale. E io mi diverto moltissimo, mi sento appagato.
Per il 2014 accompagnerai molte persone grazie al Calendario Epson, un ulteriore riconoscimento del tuo lavoro.
È stata una bellissima esperienza, fatta con partner di massima professionalità. Uso da sempre i plotter Epson e mi trovo benissimo. Abbiamo scelto di mischiare le immagini urbane con quelle dei paesaggi naturali per dar conto di questo doppio filone del mio lavoro. Il calendario ha un’impostazione grafica minimale molto elegante, e la qualità è stata curata maniacalmente – cosa che apprezzo moltissimo.
Progetti per il futuro?
Ora mi sto dedicando quasi esclusivamente alla realizzazione di un volume sui luoghi di montagna dove si è combattuta la Grande Guerra in Italia.
Il progetto nasce da un incarico avuto dalla Presidenza del Consiglio, a marzo uscirà il libro e ci sarà una grande mostra a Roma. Ho visitato luoghi di una bellezza mozzafiato, intrisi di memorie e suggestione. Mi interessa molto quando il tema del paesaggio s’intreccia alla Storia, e sono particolarmente contento delle immagini che ho raccolto.