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intervista di Davide Vargas

 

Tu scrivi: “Resta di questi viaggi/la parte di me che vaga/ad ogni costo…” Che cosa è il viaggio per te?

E’ stata l’illusione di una vita che fin da bambino ho sognato di vivere, pur sapendo che non sarebbe mai stato possibile. Un’illusione ingenua, nata leggendo Corto Maltese e guardando certi film. Ancora oggi mi ostino a viaggiare più che posso, ma non è mai abbastanza, e non è mai il viaggio avventuroso che avrei sognato. Cioè qualcosa di "antico", come avesse a che fare con la fotografia dell’Ottocento, quando i pionieri fotografi andavano in giro con grandi macchine a lastre per catturare l’Oriente. Il viaggio per me è un’idea mitica di avventura privilegiata... fuorimoda in un’epoca in cui tutti viaggiano.
Sai, io son laureato in storia moderna ed ho studiato l’epoca delle grandi scoperte geografiche attraverso i racconti di viaggi sulla via delle spezie, viaggi che duravano anni senza la certezza del ritorno. La fortuna di vivere a Venezia mi faceva ritrovare all’uscita dalla biblioteca gli stessi scenari che avevo appena studiato. Suggestioni che cerco ancora di far rivivere nelle mie fotografie sapendo bene che questo è un tempo di gente smagata, che ha visto tutto

Nei tuoi viaggi hai incontrato architetture che ti piacerebbe fotografare?

Io non sono un fotografo "di" architettura, piuttosto di luoghi dove l’architettura spesso la fa da padrona. Inseguo i luoghi dove l’odore della storia, la sua puzza direi, trasuda. Ho fatto di recente il libro sul Cairo dove le Piramidi sono un segno molto forte, quasi magico, ma devo dire che preferisco le immagini della parte vecchia della città, dove si sente tutto l’intrico, la sedimentazione, l’accumulo dei materiali. Mi piace l’architettura in una forma che credo non abbia molto a che vedere con l’architettura degli architetti: non mi interessa l’oggetto ma mi attrae il caos, la messa in scena, la scenografia. E poi preferisco sempre il vecchio, quello che resta in piedi nel tempo dopo terremoti, catastrofi, lacerazioni e tuttavia conserva una dignità gloriosa, una forma di eroismo.
Sono fotografo di architetture contemporanee più per mestiere. In questo momento sto lavorando su New York e Chicago, quindi a tu per tu con le grandi architetture moderne, ma guardo allo spettacolo dell'insieme urbano, con le luci, i cartelli stradali, le pubblicità…

Ho visto che hai fotografato l’Auditorium di Renzo Piano…

Si, nasce come un lavoro professionale. Mi hanno interessato le fotografie degli esterni perché lì ho potuto inventare i miei fantasmi: in una sembrava una balena, nell’altra la pelle di un elefante. Mi trovo bene quando riesco a proiettare sul soggetto che ho davanti qualcosa del mio immaginario. Gli interni invece sono più obbligati, più istituzionali

Perché hai bisogno delle parole. La fotografia non basta più?

E’ una vicenda buffa. Quando ho cominciato a fare le prime foto, ormai venticinque anni fa, mi faceva pena vedere, magari sulle riviste del Touring Club, la didascalia: foto e testo di…. e pensavo al poveretto che non aveva trovato nessuno che gli facesse le foto o che gli scrivesse il testo, ed aveva dovuto fare tutto da solo. Non mi accorgevo che in realtà stavo crescendo sulla stessa falsariga: io ho sempre scritto, da quando avevo sedici anni, e allora cominciavo a fotografare.
Questo libro sul Cairo è il primo che contiene poesie scritte pensando alle fotografie fatte, quindi mi è sembrato giusto tenerle insieme. Ma non è una prassi assolutamente necessaria, a volte funziona a volte no.
Sono molto legato ad una decina di poesie - forse meno, otto - brevissime, che ho scritto tanti anni fa dopo aver stampato le fotografie di un viaggio in Marocco. Semplicemente, guardando le foto mi era venuto di scrivere delle cose che ancora oggi trovo pertinenti e inscindibili.
Ma mi rendo conta che a chi guarda le foto forse non importa niente. Anzi, a volte può essere fuorviante. Secondo me solo nella pubblicità si riesce a tenere insieme davvero bene immagine e testi

Perché proprio la poesia? Che cosa è la poesia per te?

La poesia è un precipitato, si riesce a dire in dieci righe cose importanti. Sono stato sempre attratto da questo potere di sintesi. Nel mio caso, poi, la poesia è strettamente legata alla fotografia perché io scrivo per immagini e credo, o mi illudo, che chi legge veda. E’ quello che a me è capitato molto spesso leggendo poesie.
Tornato da un lunghissimo viaggio in India, tanto tempo fa, ho comprato i Meridiani di Montale, e lì la mia vita è cambiata. Sai, quelle cose che ti accadono e ti cambiano la vita: ebbene, Montale è stato questo per me.
Come
Blade Runner mi ha cambiato l’idea del visivo.

Nelle tue poesie parli spesso di “mulino diroccato….gasometro….informi ossature d’acciaio…” che tipo di interesse c’è dietro?

Anni fa ho fotografato il Molino Stucky, un gigantesco edificio abbandonato alla Giudecca. Grazie all’interessamento di Massimo Scolari e Francesco Amendolagine ho avuto il permesso di entrare. Ho avuto le chiavi di un grande scenario dove tutto era collassato, dove c’erano pietra, storia, alberi, paura che cadessero le cose… e son rimasto padrone di questo spazio per una quindicina di giorni. Nella poesia che citi mi riferisco a quel mulino e a quella esperienza; il gasometro, invece, era vicino alla mia scuola e con i suoi ferri arrugginiti era una struttura assolutamente distonica rispetto a Venezia. Mi colpiscono le strutture mostruose, i grandi macchinari. E poi, ho il gusto decadente della rovine, dei materiali che conservano un’intensità straordinaria.

Che rapporto hai con la città?

A Milano son molto grato, mi ha accolto e mi ci trovo bene. Certamente non mi piace il suo grigiore. Mi manca il bello. Ho vissuto a Venezia fino a pochi anni fa e mi sono abituato ad un’overdose di bellezza.
Il mio sogno è stato sempre vivere a New York, ma forse anche New York oggi non è più quella di una volta. Oppure Londra. Ecco, quando torni da Londra torni da una città allegra, coloratissima, dove la luce è strepitosa.
Ho un rapporto con la città in cui ora vivo non bello dal punto di vista visivo, ma intenso dal punto di vista sentimentale ed emotivo.

Perché nessuno oggi ama la città in cui vive?

Se io potessi tornerei a Venezia che però, mi rendo conto, non è una città paragonabile ad altre. Credo oggi mi sarebbe quasi impossibile viverci, ma per colpa dei veneziani più che dei turisti. E’ una città che avverto sempre più arrogante, maleducata. Ogni volta che torno provo una grande pena... Poi la attraverso di notte quando non c’è più nessuno in giro, e ritrovo tutta la sua incredibile bellezza.
Forse le città in genere son deludenti dal punto di vista visivo: non c’è mai un imprevisto. Non trovo mai un’architettura, un arredo urbano, una luce che mi piaccia veramente, se non nel vecchio: ritorniamo al tema che forse mi ossessiona.
Son reduce da tre giorni passati a Matera, dove la parte nuova della città mi è apparsa brutta, mentre ho ritrovato nei Sassi ancora un fascino strepitoso; la gente non vuole andare via da lì, ed è addirittura contenta che la città non sia raggiunta da autostrade, linee ferroviarie.

Che cosa ti aspetteresti dall’architettura per la città?

Osare, rischiare. In Italia non vedo architettura, siamo all’ammasso totale, tutto serializzato e male.. Mi pare che il nostro sia un posto dove non si costruisce, non si rinnova, non si rischia e non si sbaglia. Ecco, vorrei vedere questo: più movimento. Anche cose che mi stupiscano, come accade all’estero.

Pensi che si possa incidere sulla realtà?

Credo tuttosommato di si, quando si parla alla gente. Se uno vede un bel film, legge una bella pagina, guarda una bella architettura è qualità della vita che si innesta. Poi, magari, non accade di incidere in maniera profonda.
Nel mio piccolo, le cose belle che ho incontrato nella mia vita vedo che hanno inciso molto, ti dicevo di Montale.

Che rapporto hai con la città di notte? Ho visto molte tue fotografie notturne…

All’inizio è stato un escamotage. Dovendo lavorare a Venezia con la mente intasata da milioni di immagini della città non ero in grado di vedere niente con i miei occhi. Quindi, ho provato di notte.
Tra l’altro, mi son reso conto che mi divertivo molto di più a sviluppare e stampare perché non potevo prevedere con precisione il risultato. Mentre l’immagine diurna è abbastanza prevedibile, di notte i risultati sono strampalati, eppure ogni luce è plausibile. La notte è più indicibile e quindi è più interpretabile, e questo l’ho trovato stimolante.
Di notte è più facile per me ricostruire il set che vagheggio.
Certo, non ho questo problema di fronte a paesaggi sconfinati. Prendi le luci diurne della Patagonia: sono straordinarie. I cambiamenti del cielo attraversato dalle nuvole determinano una dimensione del visivo molto diversa da quella che siamo abituati a vedere qui.

Chi sono tra i fotografi i tuoi padri putativi?

Tutti i fotografi dell’Ottocento, perché invidio loro le fotografie che avrei voluto fare io. Poi, soprattutto gli americani: Walker Evans, Winston Link, Robert Adams... In Italia, il mio maestro è stato Gabriele Basilico.

Che musica ascolti? Che film vedi?

Ascolto di tutto ma, soprattutto, ancora la musica dei miei quindici anni. Sono andato fino a Lione per il concerto dei Genesis. Se mi fosse concesso di scambiare tutto quello che so fare con la possibilità di suonare la batteria come Phil Collins solo per dieci minuti, lo farei volentieri. Quella musica lì, a distanza di trent'anni, mi dà ancora una grande energia, e vi sento quella potenza che vorrei avessero le mie fotografie. Quindi, correre il rischio di essere sinfonico, non minimalista, possente e lontano da ogni minutaglia. Amo il cinema americano per gli stessi motivi - anche tanti film di serie B che mi hanno dato molte idee per luci, inquadrature, suggestioni.

Come coltivi il tuo spirito? Come ti prendi cura di te?

Continuando a coltivare i miei sogni, continuando a lavorare mischiando in maniera poco scientifica le mie cose di elezione, in questo caso l’immagine e la scrittura.
Credo che prendermi cura di me sia proprio seguire via via quello che mi viene in mente di fare. Ora sto disegnando il mio sito internet, ho capito che dovevo farlo io, proprio come la la stampa delle mie fotografie. Dedico il mio tempo e il mio impegno a quello che mi incuriosisce e mi emoziona. Questa io credo sia una forma di cura di sé.

 

da d'Architettura, 2008

copyright © Luca Campigotto, all
copyright © 2013 Luca Campigotto

Luca Campigotto

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