Luca Campigotto
Un luogo senza tempo
Era l’inverno del 1991, ed io ero un fotografo in cerca di idee. In mancanza di una grande frontiera geografica da esplorare (in cuor mio, il West di Robert Adams, i campi di battaglia di Roger Fenton in Crimea, Il Cairo dei fratelli Beato), una sera uscii con una reflex e tentai le mie prime fotografie notturne a Venezia. Era molto buio, faceva freddo; feci solo qualche scatto, pensando non sarebbe venuto fuori niente, e mi affrettai a tornare a casa. Fu una sorpresa, l’indomani, scoprire che le immagini che avevo ripreso restituivano un’atmosfera teatrale. Nella trasparenza leggera del negativo, pareva di sentire anche l’umidità; il suono, così familiare, dell’acqua che si muove appena. Così mi feci prestare una macchina a lastre – unico punto di contatto con i miei autori prediletti – e iniziai a riprendere sistematicamente la città.
Durante le attese dovute alle lunghe esposizioni, mi chiedevo quanto fosse una buona idea aver scelto un soggetto cosi difficile. Gli studi di storia mi avevano abituato a raccontare Venezia attraverso i dati incontestabili delle carte d’archivio e le ricostruzioni della grande storiografia. Ora però, per la prima volta, consideravo il posto in cui vivevo con la preoccupazione di chi cerca di esprimere un punto di vista personale. Ero conscio che la bellezza del luogo – la sua evidenza poetica – fosse più forte di qualunque retorica. Ma la sterminata iconografia esistente rendeva impossibile provare una nuova innocenza dello sguardo. “L’ansia di fissare un paesaggio capace di fare a meno di me”, come scrive Josiph Brodskij, mi veniva incontro nell’incanto delle strade vuote. Infine, proprio in nome del mio legame, scelsi l’azzardo di tenere come riferimento l’amorosa ossessione che insegnano i Grandi – Eugène Atget, perduto nelle strade di Parigi; Bernardo Bellotto, che non smette di rivedere Dresda… Nei miei occhi, la nitida conoscenza, metro per metro, di muri marci e canali si confondeva con i secoli d’oro della Serenissima ereditati dai libri. Lo scenario evocava certe notti lontane che non ho conosciuto.
La notte più umida dell'estate, insonne e asfissiante come quella che precedeva l'arrivo della peste. La città svuotata, barricata in casa per sfuggire alla febbre. La notte in cui il Consiglio dei Dieci si riunì per una drammatica seduta d'emergenza, mentre lo scirocco infuriava sotto i portici e l'acqua penetrava in ogni fessura. O la notte in cui gli scoppi e gli incendi dei Turchi squarciarono il buio, e al largo si poteva intravedere il sinistro, vorticoso baluginare delle lanterne poppiere, la danza brusca delle virate in combattimento. Ma anche secoli e secoli di notti trascorse senza eventi straordinari. Notti all'addiaccio, tra le urla e i colpi di tosse che dal molo - ingombro di fuochi e di teli - salivano ai finestroni del Palazzo. Notti impregnate dall'odore del legno polacco accatastato – gonfio d'acqua come un morto – oltre le mura dell'Arsenale. Notti graffiate dai sogni premonitori dei molti, nel corso dei secoli, di qui partiti e mai più ritornati. Notti di decisioni affrettate, che avrebbero segnato una vita intera e, in fondo, si sono sempre ridotte ad una questione d'Oriente, di viaggi e di amori troncati. E poi, la ronda dei "Signori di Notte". La caccia ai libertini in fuga per la laguna. I chiari di luna fra giocatori d'azzardo. Gli irrefrenabili sghignazzi delle cortigiane da un balcone illuminato. Il lavoro febbrile dei mercanti, curvi sui libri contabili al lume di candela, smaniosi di raggiungere la giovane serva nel sottotetto.
Attraverso l’artificio fotografico - la sua natura ambigua, di inevitabile menzogna – ho cercato di ricostruire le scenografie della mia immaginazione. Venezia è una vedova secolare. Sublime e malarica ogni notte, quando resta abbandonata a se stessa, ai gatti, alla ciurma degli innamorati respinti. Al buio, è un corpo che si lascia esplorare; un repertorio che disvela l'archeologia stessa del panorama, e concede il privilegio di un viaggio nel tempo. Le fotografie danno vita alla materia dell’indimenticabile. Io le amo, perchè illudono di poter ritrovare quanto è perduto, o ciò che non si è mai posseduto. Un ultimo sguardo trasforma in icona quel che si teme di non vedere più. Nella suadente infedeltà del bianconero, il sogno è premeditato. Forse, la fotografia è lo strumento supremo della nostalgia.
dal volume Venezia, immaginario notturno, Contrasto, Roma 2006
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