La «magnifica simmetria» nasce sul mito. Che Venezia, come New York, sa coltivare. La prima coi suoi «fruscii di passi e di acqua, la seconda con i suoi colpi secchi, schianti e sirene che ululano. Come la Venezia medievale e moderna seppe raccontarsi e celebrare se stessa, così da più di un secolo New York coltiva in modo geniale il proprio mito». Dopo aver esplorato la "sua" Venezia cercandola al fuori dal tempo in "Venetia Obscura", il veneziano Luca Campigotto approda a New York con gli stessi occhi «famelici e devoti», in cerca «dell’irriducibile essenza visiva» della Big Apple. E "Gotham city", il nuovo volume del fotografo veneziano appena pubblicato da Damiani (40 euro) e dal 2 febbraio trasformato in mostra alla Bugno Gallery di Venezia (San Marco), è ben più di una "love story" con New York, ma svela uno sguardo unico, personalissimo e spiazzante che supera l'immagine in sè, donandole un suggestivo potere narrativo. Lo skyline, Canal Street, i ponti, Tribeca, Soho, Greenwich Village, South Street Seaport sono luoghi «nati con gli occhi pieni di cinema - racconta Campigotto, classe 1962, ormai trapiantato a Milano - e la fotografia che vedi al cinema, per me, è la più originale. Per cui non mi importa se gli scorci su New York fanno parte dell’immaginario collettivo cinematografico. Le immagini sono poi interiorizzate, diventano roba mia, di cui io ho il controllo. È la "mia" New York».
Le fotografie di Campigotto sono solo parzialmente naturalistiche: nè reporter nè narratore, l’artista veneziano è di fatto un ideatore di scene che si relaziona con New York - come aveva già fatto con Venezia o con suoi "Wild Places" esposti a Palazzo Fortuny qualche anno fa - in modo soggettivo: «Ogni immagine è ricca di episodi grafici e formali - sottolinea il critico Marvin Heiferman nella prefazione al volume - la sfilata delle facciata elegantemente irregimentate, l'intreccio delle scale antincendio e delle impalcature che avvolgono gli edifici, gli effetti spettrali innescati dalle molteplici sorgenti di luci, e la nervosa sovrapposizione di qualunque genere di insegne e indicazioni».
Tra i bianchi e neri di palazzi, grattacieli, strade, scie fantasma di fari delle auto, vicoli silenziosi affollati da esplosioni di graffiti, Campigotto inserisce personalissimi tocchi di colore che rimandano ad altro: semafori gialli tra le avenue, insegne pubblicitarie luminose tra i edifici grigi, finestre illuminate che paiono comporre misteriosi puzzle tra i grattacieli, bianchi o gialli sfavillanti tra le "mille luci di New York" presa dall'alto, e poi i ponti, il Manhattan bridge e il Queensboro Bridge visti da sotto, con le loro geometrie eleganti e rigorose. E unendo lo sguardo indagatore del bianco ottico a una sensibilità risolutamente romantica, «Campigotto crea fotografie straordinarie e ammalianti - chiude il critico americano - emozionanti come sono, queste fotografie argute dicono anche qualcos'altro, qualcosa di imprevisto: l'indifferenza della grande città e la sua capacità di andare avanti senza di noi». Certo, come Venezia anche New York rischia di diventare un parco a tema di se stessa, ma Campigotto non se ne cura. Nella "lettera d’amore" con cui chiude il suo bel libro fatto di citazioni e rimandi (da "C’era una volta in America" a "Metropolis"), il fotografo veneziano riconosce che stare a New York è come «stare al centro della corrente». «Ho avuto il privilegio di essere cresciuto circondato della bellezza e dalla storia di Venezia, ma ho sempre sentito New York come il mio vero posto nel mondo. È una vita che corteggio questa città, un giorno mi dirà di sì».
Il Gazzettino, 21 gennaio 2013
Chiara Pavan
Venezia-New York, dove nasce il mito