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Sono proprio selvaggi i posti (come recita il titolo della Mostra che si chiude oggi 9 gennaio al veneziano Palazzo Fortuny ma che sono reperibili nello splendido volume My Wild Places editore Hatje Cantz) che hanno segnato una parte della carriera e, quindi, della vita di Luca Campigotto, fotografo. “Il mio lavoro – racconta – oggi è diviso in due strade. Una parte è incentrata sulla metropoli, specie la notte; con luci e tagli il più possibile cinematografici. L’altra è riversa sulla bellezza travolgente, spudorata, di paesaggi scabri. Eroici. Come nella mia testa erano eroiche le colonne di ghisa del Molino Stucky rimaste in piedi nello sfacelo generale dei solai crollati. Delle vestigia del tempo che passa. Il bianconero è la cifra della memoria assoluta e più profonda. La scatola nera in fondo a noi stessi. Il bianco e nero è l’”abc” della fotografia, l’ispirazione geniale originaria. I colori, invece, sono quelli del ricordo, e solo la potenza cieca di un computer mi permette di raggiungerli e di ricostruirli. Sono i colori così, come a distanza d’anni, scelgo appunto di volerli ricordare”. Sono di grandi formato le stampe esibite e realizzate digitalmente con un sistema a pigmenti che ostenta lo spessore di una materia cromatica (anche quando c’è solo la scala del grigio), quasi che con i nuovi metodi di riproduzione si potesse puntare su una forma rinnovata di “pittorialismo”: “Pittorici? – Campigotto risponde – Forse, non so, ma può essere. Sono comunque la stampe più belle che sono riuscito a fare. Spero siano profonde, tridimensionali. Grandi finestroni aperti su luoghi straordinari. Sono grandi perché secondo me stanno meglio grandi, ma certo non è scritto da nessuna parte lo dovrebbero essere. In fondo, al MOMA a New York, vedi i contatti di Walker Evans e ti viene lo stranguglione in gola!”. Il libro (144 pagine, orizzontale di buon formato) conserva l’idea che ha innescato l’operazione che: “Descrive un arco di quasi vent’anni, ma senza tener conto di date, bianconero o colore, nè di indicazioni geografiche. Qualcuno si lamenta perché non ci sono didascalie, come se la cosa importante non sia la visione di un luogo ma, come per un automatismo irrinunciabile, “sapere dove sia quel posto”. Perché, in realtà, sono proprio posti ai limiti, eroici anche per la loro identificazione e conquista, per la scelta dei tempi di esposizione che va in consonanza con la propagazione della luce. Valli, distese, deserti. Anche manufatti ma antichi quanto una parete rocciosa. Vastità di ghiacci rilucenti e di acqua appena increspata. Orizzonti lontanissimi. Con rare figure umane simili ai rari vegetali che riescono, non si sa come, a sopravvivere nei luoghi più impossibili. O altri manufatti moderni come enormi navi. “Il rompighiaccio intrappolato – conferma Campigotto – è lo "squalosauro" che, come un piccolo Indiana Jones avrei voluto trovare. Perché io ambirei a render icona il visibile. La scia della nave nel ghiaccio è “la” scia. Il deserto mezza sabbia sotto e mezzo cielo sopra è l’idea del deserto (ti ricordi "Il volo delle Fenice", con Ernst Borgnine?). I vuoti della Patagonia sono i vuoti di un paesaggio che ti toglie il fiato da tanto grande che è, tanto pieno di niente, tanto sovradimensionato per noi eeuropei e cittadini. Una bellezza che è evidenza poetica tout-court, e non va contraddetta da alcuna pratica fotografica artistoidegiante”. Partito all’inizio degli anni ’90 dalle viscere notturne di Venezia e della sua zona industriale, e ormai, in modo conclamato, più esploratore che viaggiatore non si schernisce se gli si chiede ragione della sua ricerca: ”Se dovessi scegliere una definizione che mi piace (forse perché inguaribilmente cortomaltesiano) direi che il viaggio compiuto nella mostra e quindi testimoniato dal libro è una ballata. Una carrellata dello sguardo che si sofferma sui grandi scenari primordiali – ghiaccio, rocce, acqua, sabbia. Una sorta di inventario degli inizi. Una celebrazione del paesaggio limite. Di quella frontiera alla Timothy O’ Sullivan-Carleton Watkins-Roger Fenton che (essendo, ahimè, io in ritardo di un secolo e passa) non ho potuto vedere/fotografare. Nostalgia di un tempo non mio, di un luogo sognato sui libri e nei film”.
La Nuova_la Tribuna di Treviso_Il Mattino di Padova 9 gennaio 2010
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