Nascono da terra, come fossero state seminate da poco. E di questa strana, inspiegabile venuta al mondo te ne accorgi sdraiandoti sulla sabbia, le piramidi di Giza in lontananza, e loro, le nuove piramidi, quei rilievi a punta tra le pietre del deserto, che spuntano all’orizzonte. Piccole, quasi acerbe contro la grandezza delle sorelle maggiori. Eppure è camminando tra queste minime sommità del tempo, una per ogni volta che il mito d’Oriente è spuntato nel nostro immaginario, che Luca Campigotto avvia il percorso del suo nuovo, bellissimo libro “Le pietre del Cairo”, edito dalla Peliti Associati. Una ricerca datata 1996, quindi già archeologica nella biografia di un fotografo di 45 anni, ma che a ben guardare tra gli angoli della città fotografati di notte e le poesie che l’autore affianca alle immagini, potrebbe risalire a tempi ancor più remoti. Quelli dell’infanzia, nei quali l’Egitto offre verità di pietra ai misteri più trasparenti, quelli dell’adolescenza, nel bianco e nero hollywoodiano e nel tratto forte di Corto Maltese, e infine quelli della prima maturità, studiando, da veneziano e storico dell’età moderna, i rapporti tra la Serenissima e l’Oriente dal Quattro al Cinquecento. “Era emozionante la sera quando uscivo dalla Biblioteca Marciana vedere che quello che avevo letto cinque minuti prima era ancora davanti a me”, racconta Campigotto. Un viaggio anni dopo, seguendo la rotta dei mercanti veneziani e di chi nei secoli ha venduto la mercanzia dei romanzi d’appendice, e l’autore si ritrova al Cairo e anche lì magicamente l’atmosfera non è cambiata. Intatto il fascino della città, da quella dei vivi a quella dei morti, e integre, viventi, quindi vere, le immagini che la nostra fantasia ha proiettato nei secoli su quei muri scavati dal sole e dall’ombra. L’itinerario, quello più originale e fuori dalla cronaca, nella scelta del grande formato e del suo peso arcaico, inizia quindi in questa sorta di archeologia personale, alla ricerca delle immagini, fotografiche e cinematografiche, e delle sensazioni nate tra le parole di altri viaggiatori passati, che hanno anticipato e hanno reso già così concreta, cesellata nella mente, la visione in diretta dell’Egitto e dei suoi simboli. Aprono, giustamente, le piramidi, quelle autentiche e quelle nella memoria fotografate a metà dell’Ottocento da Maxime du Camp, compagno di viaggio di Flaubert. Ma per ritrovare la stessa silenziosa e impressionante monumentalità, Campigotto, coetaneo al turismo di massa, deve attendere la sera, sul limitare dell’orario di chiusura, come fosse l’alba notturna di un’altra epoca. E allora, eliminati i visitatori uno ad uno con il ritocco della pazienza, la scena torna a popolarsi solo di quelle presenze che le appartengono per diritto di nascita: una minuscola carovana all’orizzonte, tre uomini, guide forse, un cavallo, una sagoma bianca che con il passo allarga la tunica, triangolo d’uomo contro la fiancata della piramide di Khefren. Scivolando tra le colonne di Sakkara e le loro ombre, ci si ritrova nella Città dei morti, altre ombre, due passanti e sono loro a indicare la via per la Cairo di tutti i giorni, tra il suk delle spezie e la moschea di al-Mu’ayyad, tra le finestre a filigrana e gli intrecci delle impalcature contro i muri pericolanti. Tutto si può toccare, tanto la qualità delle immagini è a cinque sensi, e le dita sfiorano le macerie, la sabbia che non conosce confini e quei taxi neri e lucidi come scarabei. Guardando bene, si vedono anche le giacche bianche degli europei nel taglio anni ’40, di moda da Casablanca al Cairo, e nell’oscurità si sente pure il rumore dei passi e di un fiammifero. Luce improvvisa e scenografia altrui, già vista, già perfetta, e per questo pronta a rinascere.
recensione del volume Le pietre del Cairo, Il Sole 24 ore, nr. 185, 2007
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