Walter Guadagnini

La dismisura dell'emozione

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Un deserto, un mare; a colori, in bianco e nero; distesa di terra, distesa d'acqua, le nuvole in alto; immagini segnate dalla linea dell'orizzonte, bassa nel primo caso, alta nel secondo, mai centrale e mai, soprattutto, perfettamente orizzontale. Si apre così questa raccolta d'immagini di Luca Campigotto, fotografo italiano giunto ormai alla compiuta maturità, amante in egual misura della fotografia, del viaggio e della lettura. Due immagini colte lontano dalla propria terra d'origine, dall'altra parte del mondo, come la gran parte – non tutta – di questi luoghi selvaggi che l'autore sin dal titolo considera propri, i “suoi” luoghi. Un piccolo, ma precisissimo e indicativo scarto, quella linea leggermente obliqua, che vale come una dichiarazione di poetica, o almeno una chiave di lettura utile per entrare in questo universo, fatto insieme di regole e di effrazioni, di rigore operativo e di adesione emotiva. Quella linea non perfettamente orizzontale – al contrario di altre che pure si trovano in diverse fotografie del volume – segna infatti il passaggio cruciale dalla veduta alla visione, elemento centrale nella lettura dell'intera opera di Campigotto sin dagli esordi, avvenuti al principio degli anni Novanta.
Veneziano, laureato in storia, Campigotto ha piena coscienza del valore documentario dell'esperienza fotografica, un valore assunto primariamente come retaggio culturale, come chiave di interpretazione del reale che investe contemporaneamente l'occhio e la mente. E' lo stesso autore ad avere ricordato in più di un'occasione il proprio debito alla tradizione della grande fotografia di paesaggio statunitense delle origini, da Carleton Watkins a Timothy O'Sullivan, nella quale il rapporto con gli spazi naturali agisce al tempo stesso come testimonianza dell'esistente e invenzione di un immaginario collettivo, fonte di una genealogia che giunge, con gli ovvi mutamenti relativi al modificarsi del contesto operativo, sino a Robert Adams (insieme il più rigoroso e il più sentimentale dei “nuovi topografi”, non a caso autore di un saggio intitolato
Sulla bellezza in fotografia).
Sia concesso però forzare leggermente l'aspetto biografico di questa vicenda, per ricordare come il vedutismo abbia segnato una parte fondamentale della cultura figurativa della città nella quale Campigotto è nato ed è a lungo vissuto, e alla quale ha dedicato alcune delle sue fotografie più intense, realizzate fra il 1991 e il 1999 e riunite nel 2006 nel volume Venezia. Immaginario notturno. Le vedute di Canaletto e di Bellotto, espressioni di una civiltà che conferiva alla ragione un ruolo primario nell'esercizio della comprensione del mondo, che ponevano l'occhio a una distanza tale da permettere alla realtà di entrare nel campo visivo con sufficiente chiarezza, e allo stesso tempo sottolineavano quel distacco, quasi si trattasse di uno strumento di controllo emotivo prima ancora che razionale. Ma anche le vedute di Guardi, dove quel miracoloso equilibrio si incrina, e le apparenze del mondo si fanno meno chiare, meno definite, dove l'urgenza soggettiva inizia a prendere il sopravvento su quella oggettiva, dove, per utilizzare il titolo di un mirabile testo di Svetlana Alpers dedicato all'arte olandese del XVII secolo, “l'arte del descrivere” inizia a trasformarsi nell'arte del sentire, già alle soglie della stagione romantica. Che saprà trasformare il declino della società e delle architetture in un ulteriore fonte di ispirazione, creando nuovi immaginari e nuove mitologie della perdita. Queste, in sintesi, le coordinate d'abbrivio. Ma Venezia è tutto fuorché selvaggia, e Yosemite Park è divenuto nel frattempo un'attrazione turistica. Campigotto ne è conscio, e sceglie altri itinerari, altre distanze. Non privi, è del tutto evidente, dei rischi legati comunque alla fotografia di viaggio, tra orientalismi, esotismi e primitivismi che in vario modo hanno segnato la cultura del XIX e del XX secolo. Rischi diversi, il primo e forse più importante dei quali è evidenziato già da un recensore dell'album d'Egitto di Du Camp alla metà dell'Ottocento, quando scriveva : “Ma si dimentica subito la stampa. Gli oggetti sono assimilati dall'immaginazione, e ci si ritrova a sognare. Che cos'è questa terra, dopotutto, se non una visione, un quadro muto, un'immagine inerte del passato?”. A pochi anni di distanza dalla sua invenzione, già la presunzione di realtà della fotografia è in scacco; l'immagine impressa sulla carta, a dispetto di tutte le fatiche compiute per coglierla e per stamparla, viene sopraffatta dal suo potere evocativo, altrettanto e forse più forte di quello documentario.
Da questo dubbio, da tale interrogazione, mi pare prenda avvio la ricerca di Campigotto nelle sue terre lontane, attraverso un immediato rovesciamento del problema, reso possibile, oltre che dalla sensibilità dell'autore e dall'humus al quale si accennava più sopra, dal secolo e mezzo trascorso dalla stesura di quelle parole, un secolo e mezzo durante il quale i fotografi e i loro lettori hanno quasi ossessivamente riflettuto su questi temi. Quello che poteva apparire come un aut aut, per Campigotto diviene un et et. La cura estrema con cui le sue fotografie sono realizzate e stampate – e persino manipolate a distanza di anni – è la condizione primaria non solo della loro leggibilità o della loro artisticità, ma della loro capacità di suggestione, della loro forza evocativa, della possibilità di trasformare, per l'appunto, la veduta in visione. L'autore è conscio che questo atteggiamento comporta delle rinunce – quella di una lettura sociologica del paesaggio, ad esempio, sulla quale ha insistito molta della fotografia formativa per Campigotto, tra “nuova topografia” e “nuovo paesaggio italiano” –, ma si tratta di rinunce che impongono, al tempo stesso, di non “dimenticare la stampa” (al contrario di quanto accade, ad esempio, davanti a libri costruiti su progetti ben definiti tematicamente sin dall'inizio, dove spesso l'assunto dimostrativo di una tesi spesso finisce per svalutare le singole fotografie, in favore della coerenza concettuale del progetto stesso). Davanti a queste immagini, l'occhio ritorna in continuazione, da un lato perché non è distratto da altri messaggi che non siano quelli visivi, dall'altro perché è spinto a cercare la ragione stessa di quel bisogno di rivedere, nonché a individuare l'elemento, il particolare che dà il via a quella reverie innescata da questi paesaggi. E' sufficiente sfogliare poche volte questo libro per comprendere la strategia dello sguardo di Campigotto: concepito senza ordine cronologico e senza suddivisioni geografiche, risponde a una logica che è primariamente visuale, fatta di frammenti collegati in una sequenza non narrativa, o meglio che seguono una propria narratività interna, sul modello insuperato di American Photographs di Walker Evans (si veda a questo proposito, a titolo di esempio le serie di immagini da pagina 65 a pagina 73 o quella più complessa da pagina 111 a pagina 121). Una sequenzialità che costantemente viene a sua volta posta in discussione da immagini che irrompono per contrasto, sia per il soggetto prescelto, sia per una repentina conversione dal bianco e nero al colore o viceversa. Ancora, la scelta stessa di mischiare le carte sul piano geografico, per cui una fotografia scattata a pochi chilometri da casa dialoga con una realizzata in un altro continente (esemplari sono le immagini a pagina 55 e 56), dà vita a più di una riflessione. Anzitutto, evidenzia come selvaggio non debba forzatamente essere sinonimo di lontano, evitando così l'esotismo cui darebbe vita una tale sovrapposizione dei termini (peraltro, l'irruzione di alcuni rari ma imponenti segni della civiltà contemporanea agisce in maniera analoga, evitando la sovrapposizione acritica tra selvaggio e naturale). Inoltre, suggerisce un senso costante di spaesamento, di incertezza che riporta in maniera straordinariamente sintetica – e puramente visiva, conviene ancora sottolineare - uno dei sentimenti che caratterizzano la figura del viaggiatore, così come ci è stata tramandata dalla letteratura di viaggio, a partire dall'Odissea. Infine, vale come riaffermazione dell'individualità di questo sguardo, come una sorta di appropriazione del luogo, che non è più definito dalle sue caratteristiche reali, ma dalla sua posizione all'interno dell'immaginario dell'autore.
E' un tassello importante, quest'ultimo, per afferrare infine il senso delle due immagini da cui si è preso spunto per questa lettura. Nate in presenza di un soggetto che per ragioni a volte evidenti, a volte più intime, l'autore ha ritenuto importanti, tutte queste fotografie slittano ben presto in un'altra dimensione, che è quella dell'immaginario. Un immaginario che davanti allo spettacolo naturale cerca non un Altro da sé, né la conferma delle proprie certezze, ma i modi per rendere visibile la dismisura dell'emozione (un'emozione che non nasce necessariamente dalla spettacolarità del soggetto, ma dall'intuizione delle potenzialità di quell'immagine se resa attraverso un determinato linguaggio fotografico, che Campigotto domina appieno).
Ecco, allora, i due orizzonti sghembi, la terra e il mare e il cielo, lo spazio reale e immaginario del visibile naturale, spostato solo di un poco, di qualche grado, la perdita dell'equilibrio, le onde, i campi, le nuvole lì, e la mente già altrove. La règle qui corrige l'emotion, cercava Braque molti anni orsono; forse, per Campigotto, vale il principio opposto, che sia l'emozione a correggere la regola.

 

dal libro My Wild Places, Hatje Cantz, Ostfildern, 2010

copyright © 2013 Luca Campigotto

Luca Campigotto

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