Oggi Il Cairo è un’immensa città che ha superato i venti milioni di abitanti, una parte dei quali abita in enormi condomini in cemento armato tirati su in fretta e furia, coi tetti piatti ingombri di ogni genere di oggetti abbandonati, come se le case stesse vomitassero avanzi stratificati. L’inquinamento avvolge la città in una nube tossica che irrita i polmoni e pare voler cancellare ogni ricordo dei profumi speziati del suk, o dell’aria secca del deserto che la circonda. Eppure è difficile non rimanere affascinati dai nobili palazzi fatiscenti del suo centro antico, con le stradine ancora ingombre di carretti e la moltitudine di scuole coraniche, con le antiche moschee i cui minareti s’innalzano verso il cielo come per rievocare tutto il fascino dell’Oriente sognato dai viaggiatori del passato. “Il Cairo è la metropoli dell’universo, giardino del mondo, formicaio del genere umano, trono della regalità, una città ornata di castelli e palazzi; il suo orizzonte è decorato di monasteri e di scuole, e illuminato dalle lune e dalle stelle della dottrina” – scrisse incantato il grande storico medioevale Ibn Khaldun, quando la visitò nel 1384. E’ tale storia del passato, tale magia intrisa di immaginario quella che il fotografo Luca Campigotto ha ricreato con le immagini del suo libro Le pietre del Cairo. Invece di puntare l’obbiettivo verso i luoghi della modernità, verso il caos della nuova metropoli sovrappopolata, Campigotto ha voluto immedesimarsi nello sguardo dei primi fotografi, che operavano in un’epoca il cui il Medio Oriente era sinonimo di esotico, di sogni popolati da cammelli e immense sabbie ondulate, aranci in fiore e piramidi solitarie, ancora ignare delle folle di turisti che di lì a non molto si sarebbero ammassate ai loro piedi. Guardando le immagini di Campigotto – dove il presente si sovrappone al passato, e il tempo sembra aver dimenticato la frenesia delle contemporaneità – tornano appunto in mente le immagini di quei molti fotografi viaggiatori che a fine Ottocento andarono alla scoperta dell’Egitto. Primo fra tutti Maxim du Camp che, partito alla fine del 1849 insieme all’amico scrittore Gustave Flaubert, realizzò duecento negativi con l’innovativa ma complessa tecnica del papier ciré (in cui la carta fotosensibile veniva incerata prima anziché dopo la ripresa): immagini poi pubblicate in un libro che venne accolto come “ una delle opere d’arte più significative prodotte da molto tempo”. La costruzione frontale e ordinata dell’immagini di Campigotto, spesso con minuscoli personaggi che sottolineano l’imponenza delle piramidi e dei monumenti, sembrano inoltre citare le delicate e precise immagini su carta albuminata dell’inglese Francis Frith, affascinato dal Medio Oriente come molti suoi concittadini d’epoca vittoriana. In controtendenza rispetto ai viaggi turistici contemporanei, che si sono spesso ridotti a un’avventura nel già noto, a un inseguimento frenetico di siti pubblicizzati da depliant e riviste, Luca Campigotto ha voluto spogliare i suoi occhi da tutto questo mondo fatto di immagini stereotipate e fintamente esotiche, per ritrovare un vedere capace di stupore e curiosità, attenzione e cura. “Qualunque antico paesaggista (…) sapeva immedesimarsi in volumi, ombre, coloriture, si spargeva per vette, nuvole, valli. Nel momento in cui contemplava era svuotato di capricci, bisogni, interessi, parole. In breve, acquisiva una mente intenta a contemplare la natura, si scopre che apprende tacendo, si porta al limite dell’estinzione, cancella idee e pensieri, tutto l’affanio che di solito la ingombra” – scriveva lo studioso Elémire Zolla in uno dei suoi ultimi libri: La Filosofia perenne. L’incontro fra le tradizioni d’Oriente e Occidente (Mondadori, 1999). Per ritrovare la mente sgombra e il silenzio delle contemplazione degli antichi paesaggisti di cui parlava Zolla, il nostro autore ha però dovuto attendere spesso la notte quando, scomparsi i visitatori e la frenesia del giorno con la sua orda di rumori e di grida, potevano nuovamente farsi avanti la forza e la presenza della storia che si è depositata nelle pietre e negli anfratti del Cairo. Così Campigotto è entrato di notte nel quartiere del Muski, dove ha potuto ritrovare il cuore tumultuoso dell’autentico tessuto urbano, con il suo suk che si snoda intorno alle moschee e alle scuole craniche, tra ammassi di muri, drappi laceri, impalcature abbandonate e stratificazioni di oggetti e cose, pietre e laboratori che convivono disordinatamente gli uni accanto agli altri. Poi si è inoltrato nella Città dei morti, il Qaitbai, con le sue alte tombe dei Mamelucchi; ha atteso nel buio che le grandi Piramidi di Khefren e Micerino venissero illuminate da un inaspettato “laser show”: uno spettacolo che l’intenso bianco e nero delle sue immagini ha trasformato in un’occasione per mostrarcele come se fossero immerse in una luce metafisica, misteriosa, capace di rendere ancor più simboliche e pure le loro forme. Invece di usare una leggera e rapida macchina digitale, ha preferito scegliere il grande formato che, con il suo peso quasi arcaico, gli ha imposto non solo tempi lenti, ma anche il rituale di fissare il cavalletto, di nascondere la testa dietro al panno nero, ritrovandosi così a compiere quasi gli stessi gesti dei primi fotografi viaggiatori. Si è fermato a lungo di fronte ai monumenti e alle strade che voleva ritrarre; ha aspettato che niente distraesse il suo osservare concentrato; si è fatto intridere dall’atmosfera dei luoghi, accettando che il tempo si depositasse sulla lastra così come si ha intriso le pietre della città. Ma lo sguardo di Campigotto non fa riferimento solo alle antiche fotografie di Maxim du Camp, Aymard de Banville, Felice Beato. In lui infatti si avverte anche un continuo ritorno anche a quel mondo d’Oriente che aleggia nella sua città d’origine, Venezia, patria di mercanti che per secoli commerciarono col vicino Oriente, tornandone carichi di spezie e suggestioni artistiche. Non è forse un caso se il suo sguardo si sofferma sulla cupola tondeggiante del Mausoleo di al-Salih Najm al-Din, in fondo così simile a quelle di San Marco a Venezia. Così come non è un caso se ha voluto indugiare di fronte alla grande moschea di Ibn Tulun del IX secolo, gloria architettonica del mondo mussulmano, al cui cospetto anche lo storico dell’arte Cesare Brandi si sente spinto a ricordare Venezia. Ecco infatti cosa scrive Brandi (dopo un viaggio avvenuto negli anni Sessanta) in Verde Nilo: “Quando poi si vedono le finestrelle in alto, munite di transenne che lasciano filtrare l’ombra invece della luce, impossibile non evocare gli archi del Palazzo Ducale di Venezia… Quando si osserva il magnifico mihrab ovvero la nicchia orientata verso la Mecca, fruga fruga nella memoria, escono i portali di San Marco”. Come Cesare Brandi, anche Campigotto è dunque consapevole del fatto che noi non vediamo se non quel che portiamo dentro di noi come un ricordo, come la traccia di una storia possibile, sedimentata nel nostro immaginario.
recensione de Le pietre del Cairo, in Avvenire, 2008
|
|