Nell’ambito della fotografia italiana Luca Campigotto rappresenta l’innesto di un sentimento illuminista dell’arte, una linea che trova il suo retroterra nell’ambito della cultura. L’immagine è il portato di un corto circuito tra spaesamento, procedimento tipico dell’arte contemporanea, e chiarezza concettuale, derivazione propria dell’illuminismo illustrativo della fotografia. Campigotto costruisce l’immagine come una costellazione aperta e nello stesso tempo interrotta da molti flussi fantastici. Il nitore concettuale viene evidenziato dall’impiego costante di una luce disegnata, da forme piatte e conchiuse che restituiscono a tutto tondo i riferimenti alla realtà esterna: piramidi di Menfi, Saqquara, il cimitero del Cairo e scene notturne di mercato, innumerevoli tracce di un territorio antropologico che è quello della cultura mediterranea, con affondi verso altre referenze che vagano in un universo di limpidezza e di luminosa creatività. Tale chiarezza, naturalmente, si scontra con altri fattori derivanti dalla turbolenza culturale di un occhio che mette in contatto fra loro elementi diversi, flussi improvvisi della fantasia e oggetti estranei. In tal modo, Campigotto inverte il senso lineare delle cose, le relazioni tradizionali tra loro, provocando un attacco al senso comune. La superficie della fotografia diventa il luogo di una collisione preparata concettualmente, e successivamente verificata attraverso una sensibile manualità che ne controlla le interne tensioni. L’uso dell’ombra rinvia a una tradizione della pittura che corre da quella rinascimentale fiorentina a quella francese, con l’adozione ulteriore di un’inquietudine tipicamente tedesca. L’eclettismo stilistico e il nomadismo culturale, caratteri tipici della transavanguardia, trovano conferma attraverso un’opera che non s’abbandona né a un facile edonismo né a una severa concettualità. L’opera di Campigotto è tipicamente concettosa, proprio nell’accezione manierista che attraverso il garbo dell’immagine mette in scena l’universo melanconico dell’artista, venato sempre dal senso accrescitivo del dubbio mentale e da un’attenzione esistenziale. Sul filo di una intenzionale leggerezza, che vuole attraversare il sentimento e stabilizzare la precarietà di un senso mobile nella coscienza dello spettatore. Se tradizionalmente con l’alterazione del senso corrente l’arte sconcerta e impaurisce, quella di Campigotto cerca di esorcizzare facili drammatici fantasmi, che producono soltanto un salto emotivo, per produrre un varco nella conoscenza. “L’affronto fatto alle cose” dalla fotografia di Campigotto non è frontale ma giustamente laterale, secondo i dettami della cultura contemporanea attraversata dall’apporto delle scienze umane, in questo caso in particolare dalla psicanalisi che ha creato nell’artista e nell’intellettuale del nostro secolo un sano senso della perplessità misto alla coscienza dell’impossibile uso frontale del linguaggio, il quale non è adatto a frontali denominazioni. Per questo Luca Campigotto mette in scena frammenti d’immagini relazionate tra loro mediante nessi inediti, che producono un’evidente complicazione, una conflittualità di rapporti tutti giocati sul superficialismo di uno spazio inteso come luogo di proiezione e di rovesciamento verso l’esterno, verso una visione scorrevole in tutte le direzioni.
Il neoilluminismo di Campigotto consiste proprio nella conoscenza tutta moderna di non poter compiere atti di ortopedia iconografica, di non poter chiudere in un impossibile ordine statico la mobilità dei frammenti che costituiscono i tasselli dell’immagine definitiva. Tutto questo è realizzato fuori da ogni mentalità apocalittica, senza la nostalgia di un centro della visione, mediante appunto l’impiego di una intenzionale leggerezza stilistica - portato di un atteggiamento culturale che cerca non di rimuovere la complessità, quanto piuttosto di metterla in scena nella essenzialità dell’immagine. Perché l’arte non è “amica della realtà e rispecchiamento”, non è complice della realtà esterna, piuttosto è lo strumento che ne valorizza i conflitti e ne evidenzia le aporie. L’accettazione di tutto questo comporta la necessità di strumenti linguistici che ne evidenziano l’adesione, che ne valorizzano la definizione stabilizzandola verso il luogo paradossale di una chiarezza carica di perplessità. La perplessità in Campigotto non è sintomo di un pessimismo della ragione, quanto piuttosto il riscontro dell’impossibilità di una scelta tra la lucidità dell’intelletto e l’oscurità del profondo. Solo l’arte può abitare come cerniera l’ubiquità della doppia possibilità, anzi dell’unica possibilità dettata dall’intreccio tra fantasia ed intelletto, tra la pulsione analitica e quella sintetica. L’assurdo si distingue dall’oscuro non semplicemente perché non si lascia completamente rischiarare. La sua peculiarità consiste nel fatto che si chiude ad ogni razionalizzazione: è sì interpretabile, non però spiegabile. In questo senso ogni opera d’arte autentica è assurda. Ciascuna resta indisvelabilmente misteriosa. Shakespeare sapeva tanto poco se il rapporto straordinario fra Amleto e sua madre aveva origine in qualcosa del tipo del complesso di Edipo, quanto Beckett sapeva chi è Godot.” (A. Hauser, Sociologia dell’arte). “L’assurdo” moderno di Campigotto consiste nell’accettazione di una costitutiva assurdità delle cose che lo porta non a forzare con impeto materico l’immagine ma, piuttosto, ad organizzarla assecondando quel residuo di inspiegabilità dell’arte corrispondente a quello della vita. Ma mentre la vita talvolta mette l’uomo nella condizione di assalto per tentare una razionalizzazione, la creazione artistica invece sostituisce tale tentativo con la possibilità di un’interpretazione che rispetta sempre il resto inspiegabile. Per tenere in piedi tale doppiezza, Luca Campigotto sposta la chiarezza di tale concetto nel chiarore dell’immagine, adotta il segno tenue di una descrizione delle figure, della natura e degli oggetti in un disegno senza carne, dove la nominazione visiva non sostituisce le cose ma ne produce il sospetto. In tal modo l’arte non è una pratica dogmatica e assertiva, si dimette dal ruolo di una rifondazione forte del reale per assumere, invece, quello che ci ricorda il senso transeunte dell’apparenza e, nello stesso tempo, quello definitivo dell’apparato concettuale che la sostiene. Una sorta di disinganno e di ironia regge le composizioni di Campigotto, illuminate da un chiarore interno che denota un percorso di elaborazione accrescitiva, in quanto sposta non soltanto la collocazione del reale dalla propria statica iniziale, ma ne valorizza anche quella capacità di relazione che soltanto la fantasia creativa e disinibita dell’artista riesce a sospettare. Il mistero inerente all’arte ne esprime la sua appropriabilità, ciò che, nonostante tutta l’ermeneutica, resta in essa inspiegabile ed incomprensibile... Il mistero è imposto all’arte dalla natura non artistica della realtà e l’artista in quanto estraniato alla società, s’impone da sé l’ermetismo...” (A. Hauser, Sociologia dell’arte). Il rispettoso senso di perplessità corrisponde alla coscienza di non appropriabilità non soltanto del mistero dell’arte ma anche del mistero della vita stessa. L’unico percorso possibile all’artista è appunto quello di partire dalla chiarezza di tutto questo, dall’apparente limpidezza delle cose, per approdare al chiarore dell’immagine che, nella penombra della propria evidenza, rappresenta la messa in scena del sentimento della perplessità. La perplessità laica di Luca Campigotto produce un universo iconografico che tradisce insicurezze, semmai quella “passione che si libera nel distacco” segnalata da Goethe per definire l’ironia. Un’arma efficace per controllare delicatamente le pulsioni profonde che ogni creazione comporta, e nello stesso tempo proteggere senza dogmatismo la griglia concettuale indispensabile per ogni operazione riguardante l’intelletto e la mano. In definitiva, l’opera di Luca Campigotto agisce sul versante di una cultura cosciente della ineluttabilità della forma, l’unica capace di ritagliare i flussi della fantasia dentro i contorni dell’immagine fotografica.
dal volume Le pietre del Cairo, Peliti Associati, Roma 2007
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