Conosco Luca Campigotto da circa vent’anni. La sua passione iniziale per la fotografia lo indirizzò verso il reportage e i viaggi lontani, prima gli USA, poi l’India. Durante gli anni 80 abbiamo viaggiato molto, insieme, in Europa. In quei lunghi percorsi in auto abbiamo condiviso molte esperienze e molte emozioni, parlando di storia, di tecnica, di autori e di altro, e ci siamo anche divertiti. Ma l’esperienza decisiva che avrebbe portato Luca a un livello di notorietà internazionale fu Venetia Obscura, il libro dedicato alle visioni notturne della sua città. Chi si occupa di fotografia, sa quanto sia ostico, se non quasi impossibile, realizzare delle buone immagini di Venezia, a meno di non usare una chiave sociologica o mass-mediatica, concentrandosi per esempio sui vari aspetti dell’invasione turistica, con la quale la città convive da oltre mezzo secolo. Ma lo scrigno che protegge i segreti dell’architettura, l’immaginario di un passato storico misterioso, rimane inaccessibile. Luca usa la notte come condizione limite per vedere questi segreti sottratti alla vista degli altri, come un utensile adeguato per accedere ad un paesaggio invisibile. Per un tempo infinito, armato di passione, convinzione, pazienza e coraggio, Luca si è immerso nei vari strati dell’atmosfera magmatica veneziana per costruire un racconto per immagini che nessuno era più in grado di percepire. La visione notturna, di cui Campigotto diventa in breve tempo uno dei protagonisti internazionali, provoca una sorta di anestesia della sensibilità ordinaria, sottraendo la città al brusio e al movimento quotidiano, dilatando il tempo quasi fino a sospenderlo, annullando l’inesorabile destino della fotografia istantanea, e ci consente di immergerci in un nuovo scenario, quello che l’autore ha scelto e reinventato per sé, sottratto all’immagine confusa del paesaggio urbano. Neo-illuminista e “concettoso”, secondo Achille Bonito Oliva, ma indubbiamente anche romantico e quasi espressionista in certe scelte d’uso della luce, Campigotto ripropone qui il suo consolidato approccio visivo nel bellissimo libro dedicato alla capitale egiziana. La capacità di dipingere i luoghi con la luce, ereditata dal sapiente controllo della foto notturna, L.C. la esporta anche alla luce del sole. C’è un’incredibile continuità stilistica tra i notturni delle piramidi, delle moschee, del souk e degli scorci urbani della città storica visti in controluce e resi più teatrali dalle lunghe ombre che avvolgono strade e edifici. La coerenza di queste visioni urbane che alternano giorno e notte, traccia uno straordinario profilo narrativo di questo progetto, dove grazie all’ambiguità linguistica del bianconero, come ha scritto a volte lo stesso autore, illusione e realtà, architettura e scenografia, archeologia e contemporaneità, si fondono mirabilmente in un unico racconto denso di incanto e di emozione.
recensione del volume Le pietre del Cairo, in Abitare, nr. 474, 2007
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