Arsenale

Si dice che il cuore non muoia quando sembra che dovrebbe. Che spesso sono inscindibili la gioia e la disperazione del “continuare”.
Ci ho ripensato una notte, ai piedi del colonnato delle Gaggiandre, mentre con la macchina fotografica in posa aspettavo che il negativo si impressionasse.
L’atmosfera pareva sospesa nel tempo. Quasi il cuore di pietra dell’Arsenale stesse trasmettendo un segnale di sopravvivenza: un codice eroico tramandato, di vestigia industriale e di guerra. E il buio in cui mi trovavo era, in realtà, un epicentro della Storia.
L’acqua della darsena grande era ferma e l’aria portava pochi rumori. D’un tratto alzai lo sguardo, aspettandomi di scorgere la cavalleria cinese che passava al galoppo in lontananza. Così come, seduto sugli scalini del Todaro, m’era sembrato di averla vista molti anni prima. Con gli stendardi gonfiati di vento, sfiorare appena la superficie del Bacino, mentre andava all’attacco nel silenzio dell’alba.
Forse, un sogno preso in prestito a qualcun altro. Forse, l’abitudine di pensare a Venezia come a un acquarello. Il fulcro geografico dell’immaginazione. Dove non serve chiudere gli occhi per tornare indietro, ovunque. Fin dove riesce a spingersi la memoria coraggiosa che non muore per davvero.
Tra voci e sguardi d’altri tempi, nella corte sconta che protegge un segreto lontano. Da Harry’s, per sorseggiare un Bellini con il colonnello Cantwell; sceso insieme a Hemingway “di là del fiume”, stanco di guerra, per sentire ancora battere in faccia l’indimenticabile vento invernale. O a passeggio in Piazza San Marco, nel salotto più bello del mondo. Il giorno che Corto Maltese mormora a se stesso, tra finto cinismo e saggezza malinconica: “Venezia sarebbe la mia fine”.

La percezione del tempo che passa la si ha di tanto in tanto, volgendosi a guardare quel che è stato. Quel che ormai giace per sempre al largo di noi stessi, semissommerso. A volte, la fotografia aiuta a trasformare un vecchio riflesso e inventa un’altra vita alle cose. Tornando a cercare quei “frammenti” di Eliot – e ogni altra briciola di Pollicino – nella speranza di ricomporre qualcosa. Una nostalgia, o una ferita.
Il suo compito non è dire la verità. Ma indugiare sul mondo con compassione. Diventare la parte materica, tangibile, dell’ansia con cui ci guardiamo intorno. E poi, tra rabbia e dolcezza, ergersi contro l’oblìo, a qualunque costo. Come una bestia messa a guardia dei ricordi. La ronda che sorveglia i resti del dinosauro...
Il suo autentico, nobile prodigio resta quello di regalare agli esseri umani un’illusione. Confondendo il presente di chi guarda con il passato dove è tenuto ostaggio ciò che si contempla. Quella scheggia d’eternità che ci appartiene, e che chiediamo di rivedere. Un minuto dopo, o molti anni più tardi. Gli occhi dei nostri amori, dei figli, dei vecchi che abbiamo perduto. Perché la fotografia è, prima di tutto, un percorso struggente. La dimensione visiva assoluta - e per sempre ineluttabile - del ricordo. Un territorio in cui ci si inoltra cercando la gioia, e rischiando il dolore, di ritrovare con lo sguardo.
Di certo poi, per alcuni di noi, è anche un alfabeto mistificatorio con cui procedere, nel corso del tempo, alla trasfigurazione di ciò che ci circonda. Spinti dal desiderio irrinunciabile di continuare a guardare. Tutto, comunque, fino all’ultimo momento. Come se aggirandosi con la macchina fotografica per l’Arsenale ci si potesse ritrovare, d’incanto, curvi su un tavolo male illuminato della Marciana a seguire le rotte dei grandi viaggiatori. Immaginando ancora l’alto mare, la sabbia, le Indie. Il cuore duro dei mercanti lacerato, tra una brama di ricchezze avventurose e la
saviezza del restare...

Fu a Venezia, nel tardo Medioevo, che l’Occidente cristiano mise in cantiere i propri disegni di espansione e conoscenza del mondo. E la fabbrica straordinaria dell’Arsenale - regno dei maestri d’ascia e dei calafati - divenne il nido delle galeazze che toglievano il sonno al Turco.
Poi, la decadenza ha inflitto all’architettura un’aura d’attesa. La forza della solitudine secolare.
Oggi, in fondo a Castello, rimane l’eco di uno splendore irripetibile. Un
acquafatto sofferente e grandioso. Un luogo ancora bellissimo che guarda a una vita nuova.

 

dal volume L'Arsenale di Venezia, Venezia, 2000

Luca Campigotto

 

Con questi frammenti puntellerò le mie rovine”.
T. S. Eliot

copyright © 2013 Luca Campigotto

Luca Campigotto

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